Di recente qualcuno mi ha detto “ah, ma quindi fai la schiava in uno studio di architettura!”. Ok, non si tratta di uno studio, ma di una società di ingegneria, ma, dettagli a parte, non è stata la prima volta che l’ho sentito dire o che l’ho pensato io stessa, ma forse per la prima volta mi sono detta che non è esattamente così, o, almeno, non è più come mi sento, dal momento che sono io ad averlo accettato. Ma entriamo un po’ nel dettaglio, prima di arrivare a trarre conclusioni.
Perché “schiava”? Il tema dei liberi professionisti solo sulla carta, delle “false partite Iva” (che poi false non sono a livello legale, a certe condizioni) è noto a tutti – o almeno a tutti coloro che lavorano nel settore dell’architettura: gli studi – grandi o piccoli che siano – si avvalgono di collaboratori a partita Iva ai quali però chiedono un impegno e una presenza costanti, da dipendenti. Sulla carta tu potresti collaborare anche con altri studi e avere dei tuoi clienti, ma di fatto sono in pochi quelli che ci riescono davvero, per una oggettiva mancanza di tempo a disposizione. Ne ho scritto anche in altri momenti – quand’ero più arrabbiata (o annoiata) – ma ora che ho fatto pace con il mio lavoro provo a razionalizzare.
Non voglio parlare questa volta delle motivazioni economiche e politiche del perché il nostro lavoro funzioni anche in questo modo, né entrare in un discorso relativo agli studi che sfruttano i propri collaboratori, soprattutto i più giovani, con infiniti tirocini non pagati, ma siccome al momento mi sento particolarmente ego-centrata (ecco il motivo della foto di questo post), vi racconto la mia esperienza, partendo – ahimè – from the very beginning: portate pazienza.
Lo faccio perché credo che il mentoring sia importante e che raccontare un’esperienza reale possa essere d’aiuto a tutti coloro che muovono i primi passi in questo campo, e che forse se qualcuno, nel momento in cui sono uscita dall’università, mi avesse raccontato come stavano le cose, chissà magari i miei di passi sarebbero stati diversi.
Per cominciare, vi dico che dopo la laurea ho trovato lavoro nel giro di una settimana tramite il career service del Politecnico di Milano, non grazie a chissà quale mia dote progettuale, ma esclusivamente perché sapevo usare un programma di impaginazione sconosciuto ai più (QuarkXpress), insegnatomi da mio padre, che era la skill ricercata dal piccolo studio in cui ho iniziato la mia carriera lavorativa, al fine di realizzare un manuale su un prodotto edilizio per una grande associazione di produttori di calcestruzzo.
In questa prima esperienza ho lavorato con la ritenuta d’acconto e guadagnavo 5,00€ lordi all’ora: per 8 ore al giorno e per una media di 21 giorni mensili fanno 840,00€ lordi e 672,00€ netti (allora l’Iva era al 20%), con ferie e malattie non pagate. Avevo 24 anni e già mi sembrava strano che mi pagassero (un problema che ho sempre avuto): non è durata molto – cinque o sei mesi, se non ricordo male – perché mi annoiavo terribilmente. Passare dalla relativa spensieratezza del periodo universitario ad un primo lavoro che era molto “da ufficio”, con orari fissi, pratiche amministrative da seguire, e in più in uno studio molto piccolo (l’architetto titolare e due colleghe appena più grandi di me, che fra l’altro stavano entrambe organizzando il loro matrimonio) mi ha spento velocemente la fantasia.
Ho concluso la collaborazione e frequentato un master in light design (più per ritornare ancora per un po’ nei panni di studentessa che perché mi interessasse veramente cimentarmi nell’argomento). Per il tirocinio sono capitata in un’agenzia che si occupava di allestimenti, eventi e sfilate di moda: qui ho fatto di tutto (ricordo con simpatia i modelli di Etro…), tranne che la light designer. Dopo il periodo di stage, a solo rimborso spese, mi hanno chiesto di restare. Ho accettato e mi sono divertita anche molto: guadagnavo appena più che nel primo studio, sempre in ritenuta d’acconto, ma con un fisso mensile (quindi con ferie e malattie in un certo senso coperte) come piccolo upgrade.
Passano altri cinque o sei mesi e mi riprende l’inquietudine. Il dubbio questa volta è: “Forse ci dovrei riprovare a fare l’architetto?” (allora non avrei né detto né pensato architetta).
Al terzo tentativo – questa volta dopo una serie di colloqui finiti nel vuoto cosmico di quelli che non ti richiamano per dirti “grazie, abbiamo preso un altro candidato” – capito in uno studio di architettura al momento giusto per iniziare un progetto in fase preliminare – la ristrutturazione, anzi, il risanamento conservativo, di un edificio costruito fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 – con tutti i presupposti per seguirne ogni fase, cantiere compreso. E così è andata – con una serie di altri progetti e concorsi a periodi alterni – per i successivi quattro anni e mezzo. Credo di non essermi annoiata questa volta perché si trattava sì di uno studio medio-piccolo, ma condiviso da tre architetti ciascuno con i propri collaboratori, anzi con un andirivieni continuo di persone diverse, anche di differenti nazionalità, il che era positivo perché mi ha dato modo di conoscere un sacco di persone interessanti, negativo perché il ricambio così frequente significa stage o collaboratore non felice delle condizioni di lavoro.
Qui è stato dove ho aperto la mia partita Iva (era il 2006), in regime dei minimi (non ricordo se allora si chiamasse così), con un fisso mensile che – se non ricordo male – partì sui 1.200€ e crebbe fino a 1.700€ circa.
Qui è anche dove ho capito varie cose della nostra professione, che ho poi tradotto nei cinque principi dell’archinoia.
Una piccola pausa per dire che allora non avevo mai considerato la possibilità di lavorare da freelance vera, avere un mio studio, anche in collaborazione con qualche amico/a che facesse la mia stessa professione. Perché?
Prima di tutto non pensavo di esserne in grado. Lo sappiamo tutti com’è la formazione che ci dà l’università e quanto ci si senta allo sbaraglio nel momento in cui ci si inizia a confrontare con il mondo del lavoro reale. Essere parte di un team mi ha sempre dato maggiore sicurezza in me stessa.
Poi devo dire che non ho mai avuto l’ambizione di firmare un progetto con il mio nome: vedere un mio articolo, questo sì, pubblicare un libro col mio nome (magari!), o arrivare a fare una mostra delle mie fotografie (super). Ma firmare un progetto, vederlo pubblicato su una rivista – che ne so – vincere un concorso: mi interessa meno. Avrò sbagliato lavoro? E sì che l’architetto nell’immaginario comune è un libero professionista in un certo senso molto individualista.
Probabilmente ci si mette anche una componente di mia pigrizia innata: l’idea di dovermi procacciare i lavori da sola mi stanca in partenza. Inoltre, lasciata allo stato brado, io tendo al cazzeggio estremo.
Tornando alla mia storia, arrivata a questo punto sì che invece mi sono misurata con la libera professione.
Il cantiere del progetto iniziato con l’ingresso in quest’ultimo studio era concluso ed io sufficientemente esasperata sia dallo stress del cantiere, sia dalle modalità di lavoro in uno studio medio-piccolo in cui ci si occupa un po’ di tutto, sia dal già citato ricambio continuo degli altri collaboratori (ai quali era necessario fare sempre un po’ di formazione, per vederli magari andare via nel giro di pochi mesi), e sia probabilmente da una naturale voglia di cambiamento che è propria della nostra professione.
Ho concluso la mia collaborazione con l’intenzione di prendermi una pausa di qualche mese per chiarirmi le idee su ciò che avrei voluto fare. Ho fatto un po’ di vacanza, un viaggio, ho lavorato al mio portfolio e contemporaneamente hanno cominciato ad arrivare richieste per qualche progetto da seguire. I primi lavori arrivano quasi sempre da parenti e amici, che poi – si sa – sono generalmente i peggiori clienti. Due case a schiera da ristrutturare internamente, un recupero di sottotetto, un negozio. Questa parte merita un capitolo tutto a sé, che prima o poi scriverò: ai fini di questo post dico solo che questo è stato il momento in cui ho avuto la conferma che non era la strada che volevo seguire e che il primo errore è stato quello di farmi pagare sempre troppo poco per lo sbattimento poi seguito, proprio perché si trattava di parenti e amici. Forse ho rinunciato troppo presto, ma diciamo che l’istinto mi ha detto così.
Questo ovviamente non vuol dire che, perseverando e imparando dai propri errori, non si possa arrivare ad essere dei freelance felici, se è quello che si desidera: seguitelo anche voi il vostro istinto.
Arriviamo al mio lavoro attuale. A quel punto ho preso la decisione di non lavorare più per uno studio di architettura (pur facendo comunque colloqui ovunque me lo proponessero, tanto per farmi un’idea), ma di tentare qualcosa di diverso, come una società di ingegneria. Nella mia mente questo avrebbe dovuto garantire sicurezza, organizzazione, “serietà”, certezza nei pagamenti, etc. Oggi posso dire che lavorare per una società di ingegneria sia certamente diverso dal lavorare in uno studio di architettura, con lati sia positivi sia negativi.
Era la fine del 2010, non proprio il periodo ideale per cercare un nuovo lavoro nel mondo dell’architettura. Mi ha aiutata il fatto di conoscere già una persona che lavorava in questa società: avendomi conosciuta nel precedente cantiere, mi ha chiamata e ha avuto fiducia in me. Il mondo dei colloqui nel nostro campo è una giungla, non voglio nasconderlo.
Ho già scritto di quello che oggi è il mio lavoro, così come di cose che sono successe nei periodi più difficili della crisi economica, o di come funzionasse il tema della remunerazione.
Per toccare questo punto, posso dire che continuo a lavorare con una partita Iva, che per un periodo ho seguito anche altri lavori in parallelo, lavorando come una pazza anche la sera e nei weekend, ma che l’ultimo è stato ormai mi pare tre anni fa (ora basta e ho finalmente imparato a dire dei no). Ho un contratto biennale, con rinnovo per silenzio-assenso il primo anno, e ricontrattazione al secondo anno. In otto anni sono sempre stata riconfermata, anche nei momenti più difficili che so che la società ha attraversato, e ad ogni nuovo contratto ho sempre avuto un aumento nel compenso economico: per dare un’idea, ho iniziato guadagnando il massimo che prendevo nel precedente studio di architettura e ora mi trovo più o meno al doppio (rimanendo ancora per vari motivi nel regime ordinario, e non nel forfettario, con tutti gli obblighi e spese che questo comporta).
Tutto ciò premesso, questo non significa che io abbia un lavoro sicuro o che sia tutelata in casi di difficoltà, ma qui la differenza la fanno i rapporti con le persone: negli ultimi anni mi è capitato di non lavorare per cinque mesi di seguito per problemi personali e mi è stato comunque mantenuto il posto di lavoro. Questo per me ha significato molto. Il resto, come tutti i liberi professionisti, lo devo fare pagandomi l’assicurazione, anzi due: professionale e infortuni. E sperando.
Tornando all’inizio del post: perché ho accettato di lavorare in questo modo? Perché mi va bene così?
Credo che il motivo principale sia che mi interessa vedere progetti di una certa scala. Mi piace di meno lavorare per ristrutturazioni di minore entità o seguire lavori di interior: attenzione, è solo una questione di interesse personale, non voglio dire che siano opere meno importanti, anzi, comportano un rapporto col cliente e una dedizione per i dettagli che io non conosco.
Detto sinceramente, i progetti che seguo non mi verrebbero affidati se fossi una libera professionista con studio individuale – questo magari l’università ce lo dovrebbe dire mentre ci fa progettare il nuovo ospedale modello o la nuova città ideale – ma è ovvio. Poi magari a qualcuno capita, ma qui parliamo di grandi numeri. L’unico modo per essere coinvolti come freelance in progetti di una certa scala è quello di specializzarsi in una disciplina – l’acustica o l’antincendio, per esempio – ma ovviamente in questo caso si seguirà il lavoro come specialisti e non come progettisti architettonici.
Lavorare in un team di progettazione ha l’aspetto positivo di sentirsi con le spalle un po’ più coperte quando sopraggiungono i problemi e si impara presto che nel nostro lavoro dover risolvere problemi è all’ordine del giorno. Poter stemperare l’ansia chiedendo un confronto ad un collega e condividendo responsabilità mi è stato certamente d’aiuto a dare un giusto peso alle cose: io, da sola, non ci dormirei la notte.
L’altro lato della medaglia è che avere a che fare tutti i giorni con tante persone diverse non è sempre facile e che quindi ci si incazza spesso: estremizzo, ma non troppo, dicendo che l’idea di entrare in ufficio/studio e fare una strage è un pensiero che ogni tanto viene, ecco magari avvisando con anticipo i colleghi più simpatici… Diciamo che è un lavoro che tempra e che ti mette nelle condizioni di poter affrontare qualsiasi situazione.
L’unica cosa che posso dire mi manchi davvero è la possibilità di gestire liberamente il mio tempo – dici poco – ma anche su questo punto sono convinta che dobbiamo essere bravi/brave noi a ricordarci che, seppur risultiamo liberi professionisti solo sulla carta, questo non significa che non lo siamo veramente: io l’ho imparato col tempo e ora riesco a prendere i miei spazi, quando ne ho bisogno, senza soffrire più di sensi di colpa, visto che restituisco abbondantemente quello che prendo.
Otto anni sono tanti, a pensarci. Quando ho iniziato a lavorare per questa società ero una progettista junior, diciamo: la prima commessa per la quale ho lavorato era un bel centro commerciale del quale mi sono state affidate delle singole parti, sviluppate in parallelo ad altri tre colleghi. Nel tempo il mio ruolo è cambiato ed ora mi dicono che sono una coordinatrice di progetto, ma la verità è che a volte coordino solo me stessa e che faccio cose anche diversissime fra loro, dall’andare ad una riunione con clienti importanti fino ad impolverarmi in sottotetti malsani a verificare delle misure… cosa che mi dicono non dovrei più fare io (ma altrimenti come mi diverto?). Forse la varietà è quella che mi permette di non annoiarmi, ma non è sempre stato così: un po’ di tempo fa avevo deciso di cambiare lavoro e ho fatto anche una serie di colloqui, ma la verità è che ho capito che, anche in un posto diverso, mi ritroverei a lavorare esattamente nello stesso modo perché sono io che sono così, che accetto ed impongo regole, che me le faccio andare bene o che le cambio imponendomi quel minimo per adeguarle al mio modo di essere.
Se e quando ci sarà un nuovo lavoro, quindi, non sarà con un nuovo studio o con una nuova società, ma ormai non potrà che essere da freelance “vera”: ma a quel punto temo che non farò più l’architetta.
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